Carlo Michelstaedter

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Mila
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Carlo Michelstaedter

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Carlo Michelstaedter
VOLO PER ALTRI CIELI È LA MIA VITA

Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia nel 1887 in una famiglia ebrea di lingua italiana. Studiò a fondo Platone e i presocratici (si veda il suo Dialogo della salute), la Bibbia e i tragici greci, i grandi poeti della nostra letteratura, sempre anelando a quel mondo incondizionato che sta al di là dei limiti della vita umana. Desiderava dunque fuggire da un qui-ed-ora in cui si doveva subire la volontà di un Assoluto imperscrutabile, per annullarsi e diventare egli stesso assoluto.
Trasferitosi a Firenze vi frequentò la facoltà di lettere. Terminata nella città natale (ottobre del 1910) la stesura della tesi di laurea (La persuasione e la rettorica) decise di porre termine alla sua fatica di vivere con un colpo di rivoltella.
Come risulta evidente anche nelle sue poesie, Michelstaedter non riesce ad accettare il mistero della creazione, non crede in fondo né ad un amore divino né tantomeno ad un suo riflesso efficace nell'uomo, e desidera solo dissolversi nel nulla.
Nonostante questo sfondo pessimistico e nichilista, la poesia di Michelstaedter ci dona immagini di struggente bellezza a volte un po' giocate altre volte vere e perfette nell'uso della lingua.


VOGLIO E NON POSSO E SPERO SENZA FEDE

I
Cade la pioggia triste e senza posa
a stilla a stilla
e si dissolve. Trema
la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa
sembra che debba
nell'ombra densa dileguare e quasi
nebbia bianchiccia perdersi e morire
mentre filtri voluttüosamente
oltre i diafani fili di pioggia
come lame d'acciaio vibranti.

Così l'anima mia si discolora
e si dissolve indefinitamente
che fra le tenui spire l'universo
volle abbracciare.

Ahi! che svanita come nebbia bianca
nell'ombra folta della notte eterna
è la natura e l'anima smarrita
palpita e soffre orribilmente sola
sola e cerca l'oblio.

II
"Guardi dove cammina! o 'che 'gli è cieco?".
M'erutta in faccia con fetor di vino
un popolano dondolando l'anca.
In vasta curva costeggiando il fiume
tremola ancor la luce dei fanali
e l'Arno scorre sonnacchioso e grigio,
l'acque melmose.
Spicca dei colli ancor la massa oscura
e San Miniato avvolto nella nebbia
ombra nell'ombra, -
fiaccola rossa dai camini neri
batte nell'aria, e l'alito affannoso
ferve di vita.
E risponde dall'anima mia triste
un'ansïosa brama di vittoria
ed un bisogno amaro di carezze:
forza incosciente - fiaccola fumosa.

III
O vita, o vita ancor mi tieni, indarno
l'anima si divincola, ed indarno
cerca di penetrar il tuo mistero
cerca abbracciare in un amplesso immenso
ogni tuo aspetto. -
Amore e morte, l'universo e 'l nulla
necessità crudele della vita
tu mi rifiuti.

(Febbraio 1907)

***

I
A che mi guardi fanciulla con gli occhi pieni di luce,
con gli occhi azzurri profondi ed al volto ti sale una fiamma?
Non ha sole la mia giovinezza, non conta gli anni il mio core
l'anima mia dolorosa non sa le primavere.
Fanciulla perché ti soffermi? perché t'avvicini al mio core?
perché o fanciulla l'avvolgi nel fuoco tuo giovanile?
Fanciulla è freddo il mio core, è freddo il mio core lontano,
non sente l'alito ardente della tua giovane vita.

II
Quando pei blandi tramonti, per gli ampi meriggi infocati
sui pallidi volti sussurra amor violente lusinghe,
e quando maggio riarde il petto all'uomo che vive
il core mio tace o fanciulla. -
E quando pel fosco piano cui plumbeo il cielo incombe
divampa la fiamma ribelle sospinta dal vento dell'odio
dell'odio doloroso delle moltitudini vinte
ed arde ogni giovane core e piange nell'aria fumosa
lo spasimo disperato, e suona l'urlo più alto
quando frementi si tendono gli archi di tutte le vite
esso tace o fanciulla.
E quando la mamma mi trae dalle aride ciglia una stilla
e quando la morte mi tocca, mi stringe il core convulso
e caldo m'ottenebra gli occhi il sangue di quanti ho amato
esso tace ancora o fanciulla.
E quando m'irride la folla e quando m'innalza la lode
e quando sfacciata mi sento la forza dei giovani anni
il cor mio tace o fanciulla un superbo infinito silenzio.

(Pasqua 1907)

***

Senti Iolanda come è triste il sole
e come stride l'alito del vento -
passa radendo i vertici fioriti
un nembo irresistibile.

Senti, è sinistro il grido degli uccelli
vedi che oscura è l'aria
ed è fuliggine
nel raggio d'ogni luce e dal profondo
sembra levarsi tutto quanto è triste
e doloroso nel passato e tutte
le forze brute in fremito ribelle
contaminarsi irreparabilmente.

Scompose il nembo irreparabilmente
il tuo sorriso,
Iolanda, e mi percorse
con ignoto terrore il core altero. -
Che è questo che s'attarda insidïoso
nel nostro sguardo allor che senza fine
immoto intenso dalle nere ciglia
arde di vicendevole calore?
Perché di fosca fiamma la pupilla
s'accende nel languore disperato?
Perché non ride amore
come rideva amico nelle tenui
sere di maggio?
È più forte, più forte
questa torbida fiamma di desio
e mentre tutto intorno a me precipita
mente crolla nel vortice funesto
ogni affetto, ogni fede, ogni speranza
sbatte le rosse lingue e s'attorciglia
inestinguibile.

E più, e più, e più nel cielo fumido
arde l'ansia selvaggia e dolorosa
purché io sugga dai tuoi occhi il fascino
purché io senta le tue mani fremere
purché io colga alla tua bocca fervida
la voluttà infinita del tuo bacio
Ïolanda, e l'ebbrezza infinita. -

(Giugno 1907)

***

Che ti valse la forte speranza, che ti valse la fede che non crolla
che ti valse la dura disciplina, l'ansia che t'arse il core
o mortale che chiedi la tua sorte, se dopo il tormento diuturno
se dopo la rinuncia estrema - non muore la brama insaziata
la forza bruta e selvaggia, se ancora nel tedio muto
insiste e vivo ti tiene; - perché tu senta la morte
tua ogni istante nell'ora che lenta scorre e mai finita
perché tu speri disperando e attenda ciò che non può venire
perché il dolore cieco più forte sia del dolore che vide
la stessa vanità di sé stesso? - Tu sei come colui che nella notte
vide l'oscurità vana ed attese da dio chiedendo la divina luce
e d'ora in ora il fiero cuor nutrendo
di più forte volere e la speranza
esaltando più viva, quando il giorno
con la luce pietosa
alla vita mortale
ogni cosa mortale riadulava
non ei si scosse che con l'occhio fiso
vedeva pur la notte senza stelle. -
Come il tuo corpo che il sole accarezza
gode ed accoglie avido la luce
perché non anche l'animo rivolgi
ai lieti e cari giochi? Vedi intorno
fin dove giunge il guardo, la campagna
ride alla luce amica.

***

Amico - mi circonda il vasto mare
con mille luci - io guardo all'orizzonte
dove il cielo ed il mare
lor vita fondon infinitamente. -
Ma altrove la natura aneddotizza
la terra spiega le sue lunghe dita
ed il sole racconta a forti tratti
le coste cui il mare rode ai piedi
ed i verdi vigneti su coronano.
E giù: alle coste in seno accende il sole
bianchi paesi intorno ai campanili
e giù nel mare bianche vele erranti
alla ventura. -

A me d'accanto, sullo stesso scoglio
sta la fanciulla e vibra come un'alga,
siccome un'alga all'onda varia e infida
philobatheía (1). -
S'avviva al sole il bronzo dei capelli
ed i suoi occhi di colomba tremuli
guardano il mare e guardano la costa
illuminata. -
Ma sotto il velo dell'aria serena
sente il mistero eterno d'ogni cosa
costretta a divenire senza posa
nell'infinito.
Sente nel sol la voce dolorosa
dell'universo, - e l'abisso l'attira
l'agita con un brivido d'orrore
siccome l'onda suol l'alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell'abisso e ride al sole. -

Amico io guardo ancora all'orizzonte
dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch'io plasmi il mio mondo e perché il sole
di me possa narrar l'ombra e le luci -
la vita che mia dia pace sicura
nella pienezza dell'essere.

E gli occhi tremuli della colomba
vedranno nella gioia e nella pace
l'abisso della mia forza selvaggia -
e le onde varie della mia esistenza
l'agiteranno or lievi or tempestose
come l'onda del mar l'alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell'abisso e ride al sole.-

(Pirano, agosto 1908)

***

Nostalgia

Ma un vento lieto giù dalla montagna
invade la natura senza luce
che per la pioggia e per la nebbia si dissolve
e delle nubi oscure la continua
trama dirompe, e la diffusa nebbia
leva ed in lembi bianchi la sospinge
giocosamente;
e ride il sole volto ad occidente
ed i monti lontani e le colline
boscose e la pianura
risuscita ugualmente illuminando
nella lor gloria varia
delle ben note forme all'abitante.
Ma splendono più chiare e più serene
festevolmente,
poiché più luminosi si rimandan
i generosi a lor raggi del sole.
Riluce il monte e il piano
e il ciel riluce
di verde luce presso all'orizzonte,
e in alto nell'azzurro
l'ultime nubi fuggono ed il sole
con il lieto riso
tinge di rosa gli orli alle fuggenti.

Ahi! come tutta la natura in breve
si rasserena
nella pacata luce,
e la pena passata e il lungo tedio
dei giorni grigi oblia: ché solo a gioco
s'era offuscata: ed or con nuovo gioco
si rinnovella
e rifulge più pura.
Ma il cor mi punge con tristezza amara
che il dì ripensa della gioia
e l'alba luminosa e la speranza
folle e sicura, quando
con lieto viso incontro al nuovo sole
levai il primo canto, e la sua luce
era certa promessa alla mia speme
- e le dolci figure del mio sogno
che appena avvicinate dileguaro
tristi, perch'io ver lor fervidamente
mi protendessi
e in me le volessi, me stesso in loro
tutto esaurire.
Voler e non voler per più volere
mi trattenne sull'orlo della vita
ad angosciarmi in aspettar mia volta
ed ai giuochi d'amore ed alle imprese
giovanili mi fece disdegnoso.
- A qual pro? Ma alla veglia dolorosa
una fiamma splendeva e la nutriva
una speme più forte.
Ché se al lieto commercio e del piacere
al giocondo convito l'imperioso
battere mi togliea del mio volere
impazïente, e mi togliea 'l fatale
precipitar dell'ora, nel futuro
pur m'indicava la mia ferma fede
un giorno ed una gioia senza fine
e l'affrettava.
Ahi, quanto pur m'illuse la mortal
mia vista che di fuor ci finge certo
quanto ci manca sol perché ci manca -
"vuoto il presente, vuoto nel futuro
senza confini ogni presente, placa
il voler affannoso!
non chieder più che non possa natura!".
Ma il cor vive, e vuole, e chiede e aspetta
pur senza speme, aspetta e giorno ed ora
e girono ed ora né sa che s'aspetta
e inesorabilmente
passano l'ore lente.
Così è fuggita e fugge giovinezza
ed i miei sogni e la speranza antica
nel mio cupo aspettar ancor ritrovo
insoddisfatti.

Che mi giova o natura luminosa
l'armonia del tuo gioco senza cure?
Ahi, chi il tuo ritmo volle preoccupare
rientrar non può nei tuoi eterni giri
ad ozïare
nel lavoro giocondo ed oblïoso.
È suo destino attender senza speme
né mutamento,
vegliando, il passar de l'ore lente.

(Dicembre 1909, antivigilia dell'anno nuovo)


Aprile

Che più d'un giorno è la vita mortale?
Nubil'e brev'e freddo e pien di noia,
che po bella parer ma nulla vale.
(Petrarca, Triumphus Temporis)

Il brivido invernale e il dubbio cielo
e i nembi oscuri che al novello amore
han fatto schermo della terra antica
dispersi a un tratto, al sol ride la terra
che d'erbe e fiori ancor s'è ricoperta
- se pur il ciel di nubi ancora svarii,
onde occhieggian le stelle nelle notti,
e nere fra il lor vario scintillare
traggan le lunghe dita pel sereno
che al piano oscura ed ai profili neri
degli alberi dei monti si congiungono.
Ma nel cielo e nel piano, ma nell'aria,
ma nello sguardo della tua compagna
e nel pallido viso,
ma nel tuo corpo, ma per la tua bocca
canta ciò che non sai: la primavera.

Così mi tragge a me stesso diverso
e amor m'induce e desiderio, ancora
ch'io non sappia per che, pur fiduciosi.
Ché pur in me natura si nasconde
insidiosa e ignaro me sospinge.
Ahi, che mi vale, se pur fugge l'ora
e mi toglie da me sì ch'io non possa
saziar la mia fame ora qui tutta?
Ma solo e miserabile mi struggo
lontano e solo, anco s'a te vicino
parlo ed ascolto, o mia sola compagna.
Mentre di tra le dita delle nubi
a che occhieggian le stelle nel sereno?
Già trapassa la notte e nuove fiamme
leverà il sole ch'ei rispenga tosto:
passano i giorni e già sarà qui 'l verno
e il sol sorgendo pallido e incurante
farà fiorire il fango per le strade.
A che occhieggian le stelle nel sereno?
Qui bulica la terra e qui si muore,
cantano i galli e stridon le civette.
O gioia del novello nascimento,
o nuovo amore antico!
O vita, chi ti vive e chi ti gode
che per te nasce e vive ed ama e muore?
Ma ogni cosa sospingi senza posa
che la tua fame tiene, e che nel vario
desiderar continua si trasmuta.
Di sé ignara e del mondo desiosa
si volge a questo e a quello che nemico
le amica il vicendevole disio,
nemica a quelli pur quando li ami
e ancora a sé per più voler nemica.
Così nel giorno grigio si continua
ogni cosa che nasce moritura,
che in vari aspetti pur la vita tiene -
ed il tempo travolge - e mentre viva
vivendo muor la dïuturna morte.

Ed ancor io così perennemente
e vivo mi tramuto e mi dissolvo
e mentre assisto al mio dissolvimento
ad ogni istante soffro la mia morte.
E così attendo la mia primavera
una ed intera ed una gioia e un sole.
Voglio e non posso e spero senza fede.
Ahi, non c'è sole a romper questa nebbia,
ma senza fine e senza mutamento
sta in ogni tempo intero ed infinito
l'indifferente tramutar del tutto.

Pur tu permani, o morte, e tu m'attendi
o sano o tristo, ferma ed immutata,
morte benevolo porto sicuro.
Che ai vivi morti quando pur sia vano
quanto la vita il pallido tuo aspetto
e se morir non sia che contiunuar
la nebbia maledetta
e l'affanno agli schiavi della vita -
- purché alla mia pupilla questa luce
che pur guarda la tenebra si spenga
e più non sappia questo ch'ora soffro
vano tormento senza via né speme,
tu mi sei cara mille volte, o morte,
che il sonno verserai senza risveglio
su quest'occhio che sa di non vedere,
sì che l'oscurità per me sia spenta.

(Notte 16-17 aprile 1910)

***

RISVEGLIO

Giaccio fra l'erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m'accarezza
e sfiorano il mio capo i fiori e l'erbe
ch'agita il vento
e lo sciame ronzante degli insetti. -
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro
e trae nell'alto vasti cerchi il largo
volo dei falchi...
Vita?! Vita?! qui l'erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gl'insetti, qui gli uccelli,
e pur fra questi sente vede gode
sta sotto il vento a farsi vellicare
sta sotto il sole a suggere il calore
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch'io chiamo "io", ma ch'io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l'erbe sulla terra,
più ch'io non sia gli insetti o l'erbe o i fiori
o i falchi su nell'aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso -
altro sole, altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita...
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?
Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar confuso, questa terra,
questo cielo che incombe? M'è straniero
l'aspetto d'ogni cosa, m'è nemica
questa natura! basta! voglio uscire
da questa trama d'incubi! la vita!
la mia vita! il mio sole!

Ma pel cielo
montan le nubi su dall'orizzonte,
già lambiscono il sole, già alla terra
invidiano la luce ed il calore.
Un brivido percorre la natura
e rigido mi corre per le membra
al soffiare del vento. Ma che faccio
schiacciato sulla terra qui fra l'erbe?
Ora mi levo, ché ora ho un fine certo,
ora ho freddo, ora ho fame, ora m'affretto,
ora so la mia vita,
ché la stessa ignoranza m'è sapere -
la natura inimica ora m'è cara
che mi darà riparo e nutrimento,
ora vado a ronzar come gl'insetti. -

Sul S. Valentin, giugno 1910)

***

[Alla sorella Paula]

Come le rondinelle anno per anno
tornano al nido che le vide implumi,
così l'uomo nel giro dei suoi giorni
torna e ritorna al pensier della culla.
Ed ogni anno quel dì rifesteggiando
che alla fame, alla sete, che al dolore,
che alla vita mortale l'ha svegliato,
ogni anno in quel dì si riconforta
ad amar la vita.
E i parenti - che allor nel neonato,
nella creatura fragile impotente,
della speranza lor videro il frutto,
e con pavido amore a lui porgendo
quanto la vita dona a chi la chiede
del suo pianto si fecer velo agli occhi,
confidando che vesti e nutrimento
gli potessero far viver la vita,
- anno per anno poi rinnovellando
la speranza lontana ed il dolore
si fanno velo ancora agli occhi stanchi,
grazie porgendo a lui dell'esser nato,
perch'ei sia grato a lor della sua vita,
perché il muto dolore sia obliato
e la promessa vana ogni presente.
Ma l'augurio che ciò ch'ei mai non ebbe
pur un istante
promette in lunghi anni luminosi
dia la sua luce presa dal futuro
al giorno natalizio, e l'illusione
moltiplicando gli finga la fame
esser un bene e vita sufficiente
la diuturna morte.
E baci e doni e la mensa imbandita,
dolci parole in copia e dolci cose,
liete promesse e guardi fiduciosi
faccian chiara la stanza famigliare
facciano schermo alla notte paurosa...

Paula, non ti so dir dolci parole,
cose non so che possan esser care,
poiché il muto dolore a me ha parlato
e m'ha narrato quello che ogni cuore
soffre e non sa - ché a sé non lo confessa.
Ed oltre il vetro della chiara stanza
che le consuete imagini riflette
vedo l'oscurità pur minacciosa
- e sostare non posso nel deserto.
Lasciami andare, Paula, nella notte
a crearmi la luce da me stesso,
lasciami andar oltre il deserto, al mare
perch'io ti porti il dono luminoso
... molto più che non credi mi sei cara.

(2 agosto 1910)

***

Onda per onda batte sullo scoglio
- passan le vele bianche all'orizzonte;
monta rimonta, or dolce or tempestosa
l'agiatata marea senza riposo.
Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
questa è la terra, quello l'orizzonte
del mar lontano, il mar senza confini.
Non è il libero mare senza sponde,
il mare dove l'onda non arriva,
il mare cha da sé genera il vento,
manda la luce e in seno la riprende,
il mar che di sua vita mille vite
suscita e cresce in una sola vita.

Ahi, non c'è mare cui presso o lontano
varia sponda non gravi, e vario vento
non tolga dalla solitaria pace,
mare non è che non sia un dei mari.
Anche il mare è un deserto senza vita,
arido triste fermo affaticato.
Ed il giro dei giorni e delle lune,
il variar dei venti e delle coste,
il vario giogo sì lo lega e preme
- il mar che non è mare s'anche è mare.
Ritrova il vento l'onda affaticata,
e la mia chiglia solca il vecchio solco.
E se fra il vento e il mare la mia mano
regge il timone e dirizza la vela,
non è più la mia mano che la mano
di quel vento e quell'onda che non posa...
Ché senza posa come batte l'onda
ché senza posa come vola il nembo,
sì la travaglia l'anima solitaria
a varcar nuove onde, e senza fine
nuovi confini sotto nuove stelle
fingere all'occhio fisso all'orizzonte,
dove per tamontar pur sorga il sole.
Al mio sole, al mio mar per queste strade
della terra o del mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,
tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.

(Pirano, agosto 1910)

***

Ognuno vede quanto l'altro falla
quando crede passar filo per cruna,
pur spera ognuno d'infilar sua cruna,
né perché più s'avveda dell'inganno
meno ritenta ancora la fortuna.
Ché tale è la sua sorte:
col suo filo sperar vita tramare
e con la speme giungere alla morte.

***

NOTE

1 Amante degli abissi.
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