Gio R.
Inviato: 19/08/2010, 22:17
Ho letto le vostre poesie e rimanendo affascinato dal forum, spinto da un desiderio di condivisione, ho deciso che valeva la pena postare qualcuna delle mie.
FELICITA'
Attesa Ora veemente
Che già muori, fulgi e brilli
Eppur nei cuori ancor stilli
Luce d’un sole sfuggente.
O dolce e schiva amarezza
Di sconfitte rimembranze
Nell’intimo allontanate
Dopo aver lambito il cuore
Un’effimera carezza!
Perché dunque sempre morbido al tatto
È il lieto istante poi che sì pungente
Si rivela alla ognor solinga mente?
Qualche nota nel caso servisse.
L’ho ripresa in mano di recente ed ho rivisto un paio di cose: ho cambiato alcune parole (sfuggente era al v.1 per es.) e reso una terzina di endecasillabi la domanda finale.
Metro: due strofe di ottonari più l’ultima terzina composta da endecasillabi. La rima è presa in causa in maniera “scolastica” (rima incrociata) nella prima strofa poiché serve a definire il concetto di felicità e ritorna solo negli ultimi due versi per esprimere la domanda centrale del poema.
v.1 Ora è maiuscolo perché è sostantivo e soggetto del poema, metonimia per “momento”, “tempo” felice.
veemente perché la felicità è travolgente, almeno quella cui alludo nel poema.
v.2 ho poi scoperto quest’anno che si chiama hysteron proteron.
v.4 sole sfuggente non si riesce mai ad essere completamente felici, pure in quei momenti “veementi”.
v.5 non so ancora se sostituire o meno mestizia con amarezza che sono due concetti leggermente differenti. L’unico vero difetto del secondo vocabolo sta nel fatto d’esser trito e ritrito.
v.8-9 mi affascina la parziale sgrammaticatura di questi due versi e non so se lasciarla o correggerla con “dopo che ha lambito…”
v.12 la mente in realtà è sempre solinga quando poi riflette sulla felicità, dal momento che questa non dura.
FRAGILITA'
Com'è debole questa mia voce
In mezzo alla folla.
Com'è flebile il mio respiro
Così perso nel vento.
Com'è fragile la mia anima
Sola a farsi compagnia nel tempo.
E quanto è lento di lui il fluire
Quando al cuore un gemito
Or tenti come penoso anelito
Di una promessa face di sfuggire.
E quante sono le vite
Ricamate sulle sue trame infinite.
Eterno,
Alla deriva del pensiero,
L'anima di tanto in tanto tocca
Ed una lacrima che il volto giusto sfiora
Da un tremar quasi di sgomento affiora:
Come dell’anziano la voce divien roca
L’anima ravvisando l’eterno così si fa fioca
E tuttavia cogliendo questo primo fiore
Che l’inverno coprì d’austero candore
Né in parole né in stupore mi trattengo
Per ch’io dica com'è bella
E com'è molto più vigorosa di me
Pur questa primula minuta
Che fra le ultime nevi ed il gelo
Trova spazio, ella coll’esile suo stelo.
E ne ho scritte anche in dialetto...
Feua dä porta de Cà
A porta l’è arvìa
cumme u çeu che veidu
e duve mi saieiva scentòu,
Lê u se tegne u mæ giaminnâ,
u mæ numme.
A ciappa dä porta
che de lungu mi pregu
l’è ûn passettu da renegâ
e du quæ via mi veuggiu anâ.
È in dialetto genovese e parla della difficoltà ad affrontare la vita, ad esporsi (citando Gaber: "nella strada, sulla piazza"). Peso metaforicamente assunto dalla soglia di casa (o passetto dä pòrta) che da tanto si prega perché in casa vi si vive e si è attaccati al proprio luogo, dove magari si è pure cresciuti, ma che d'altra parte è quasi da maledire (renegâ) perché è il limite spesso più atroce che costringe alla solitudine o ad una condizione spiacevole.
Per divertimento o per esercizio soltanto...
Sull'ironia (Metro: endecasillabi in rima alternata).
Contando e ricontando i miei passi
che per via ardua alla cima portano
accorgermi m’è facile di massi
che tra i pensieri spesso si portano
Macigni magnifici e assai pesanti
sull’anima mia e pur d’altra gente:
tutti noi che di qui siam passanti
per questa strada che noi non sente.
Eppur noi a essa guardiamo pazienti,
chi in favor maggiore e chi assai minore;
e forse in ciò ved’io troppo attenti
quelli che non seguon il lor furore,
poiché rifuggir la propria follia
in effetti è cosa ancor più tremenda
dell’usar peggio il senno sulla via
(che camminando par che non si estenda)
sì ch’io, come d’altri spesso intendo,
non abbia a viver stagioni perdute
cercando il futile apparir, tendendo
a nuove azioni mie sprovvedute
Presagio d’Autunno ne l’estive piogge (Metro: sonetto, due quartine con rime alternate e terzine in rima incrociata e baciata). L'altro pomeriggio volevo divertirmi ed ho buttato giù questi endecasillabi.
Or giunge rotta in gola la notizia
Ed è allarmante e piena di mestizia.
O quanta ragione ebbe Cardarelli
Nell'annunciarlo coi cari ruscelli
Di quel bel verso che 'l cuor ancor smuove
E oggi invece come presagio piove:
Parlo d'Autunno, stagione che dico
De l'Estate quasi esser il nemico!
L'etade che 'l Verno così precede
Non meritasi in ver tanto rancore
Poi che anch'essa ne l'animo riede
Di tanto in tanto in cuor un ardore
Pei suoi colori e la sua bellezza
Benché egli evochi omai solo tristezza.
FELICITA'
Attesa Ora veemente
Che già muori, fulgi e brilli
Eppur nei cuori ancor stilli
Luce d’un sole sfuggente.
O dolce e schiva amarezza
Di sconfitte rimembranze
Nell’intimo allontanate
Dopo aver lambito il cuore
Un’effimera carezza!
Perché dunque sempre morbido al tatto
È il lieto istante poi che sì pungente
Si rivela alla ognor solinga mente?
Qualche nota nel caso servisse.
L’ho ripresa in mano di recente ed ho rivisto un paio di cose: ho cambiato alcune parole (sfuggente era al v.1 per es.) e reso una terzina di endecasillabi la domanda finale.
Metro: due strofe di ottonari più l’ultima terzina composta da endecasillabi. La rima è presa in causa in maniera “scolastica” (rima incrociata) nella prima strofa poiché serve a definire il concetto di felicità e ritorna solo negli ultimi due versi per esprimere la domanda centrale del poema.
v.1 Ora è maiuscolo perché è sostantivo e soggetto del poema, metonimia per “momento”, “tempo” felice.
veemente perché la felicità è travolgente, almeno quella cui alludo nel poema.
v.2 ho poi scoperto quest’anno che si chiama hysteron proteron.
v.4 sole sfuggente non si riesce mai ad essere completamente felici, pure in quei momenti “veementi”.
v.5 non so ancora se sostituire o meno mestizia con amarezza che sono due concetti leggermente differenti. L’unico vero difetto del secondo vocabolo sta nel fatto d’esser trito e ritrito.
v.8-9 mi affascina la parziale sgrammaticatura di questi due versi e non so se lasciarla o correggerla con “dopo che ha lambito…”
v.12 la mente in realtà è sempre solinga quando poi riflette sulla felicità, dal momento che questa non dura.
FRAGILITA'
Com'è debole questa mia voce
In mezzo alla folla.
Com'è flebile il mio respiro
Così perso nel vento.
Com'è fragile la mia anima
Sola a farsi compagnia nel tempo.
E quanto è lento di lui il fluire
Quando al cuore un gemito
Or tenti come penoso anelito
Di una promessa face di sfuggire.
E quante sono le vite
Ricamate sulle sue trame infinite.
Eterno,
Alla deriva del pensiero,
L'anima di tanto in tanto tocca
Ed una lacrima che il volto giusto sfiora
Da un tremar quasi di sgomento affiora:
Come dell’anziano la voce divien roca
L’anima ravvisando l’eterno così si fa fioca
E tuttavia cogliendo questo primo fiore
Che l’inverno coprì d’austero candore
Né in parole né in stupore mi trattengo
Per ch’io dica com'è bella
E com'è molto più vigorosa di me
Pur questa primula minuta
Che fra le ultime nevi ed il gelo
Trova spazio, ella coll’esile suo stelo.
E ne ho scritte anche in dialetto...
Feua dä porta de Cà
A porta l’è arvìa
cumme u çeu che veidu
e duve mi saieiva scentòu,
Lê u se tegne u mæ giaminnâ,
u mæ numme.
A ciappa dä porta
che de lungu mi pregu
l’è ûn passettu da renegâ
e du quæ via mi veuggiu anâ.
È in dialetto genovese e parla della difficoltà ad affrontare la vita, ad esporsi (citando Gaber: "nella strada, sulla piazza"). Peso metaforicamente assunto dalla soglia di casa (o passetto dä pòrta) che da tanto si prega perché in casa vi si vive e si è attaccati al proprio luogo, dove magari si è pure cresciuti, ma che d'altra parte è quasi da maledire (renegâ) perché è il limite spesso più atroce che costringe alla solitudine o ad una condizione spiacevole.
Per divertimento o per esercizio soltanto...
Sull'ironia (Metro: endecasillabi in rima alternata).
Contando e ricontando i miei passi
che per via ardua alla cima portano
accorgermi m’è facile di massi
che tra i pensieri spesso si portano
Macigni magnifici e assai pesanti
sull’anima mia e pur d’altra gente:
tutti noi che di qui siam passanti
per questa strada che noi non sente.
Eppur noi a essa guardiamo pazienti,
chi in favor maggiore e chi assai minore;
e forse in ciò ved’io troppo attenti
quelli che non seguon il lor furore,
poiché rifuggir la propria follia
in effetti è cosa ancor più tremenda
dell’usar peggio il senno sulla via
(che camminando par che non si estenda)
sì ch’io, come d’altri spesso intendo,
non abbia a viver stagioni perdute
cercando il futile apparir, tendendo
a nuove azioni mie sprovvedute
Presagio d’Autunno ne l’estive piogge (Metro: sonetto, due quartine con rime alternate e terzine in rima incrociata e baciata). L'altro pomeriggio volevo divertirmi ed ho buttato giù questi endecasillabi.
Or giunge rotta in gola la notizia
Ed è allarmante e piena di mestizia.
O quanta ragione ebbe Cardarelli
Nell'annunciarlo coi cari ruscelli
Di quel bel verso che 'l cuor ancor smuove
E oggi invece come presagio piove:
Parlo d'Autunno, stagione che dico
De l'Estate quasi esser il nemico!
L'etade che 'l Verno così precede
Non meritasi in ver tanto rancore
Poi che anch'essa ne l'animo riede
Di tanto in tanto in cuor un ardore
Pei suoi colori e la sua bellezza
Benché egli evochi omai solo tristezza.