Giovanni Teresi
Inviato: 30/11/2006, 13:07
L’amore platonico
Sulle chete colline ridenti
Zefiro soffiò con inaudite forze
sollevando sterpi e polveri ingenti;
preparava la terra ad accoglier
/nelle pozze
le acque fertili con gioia…
Transumavano gli armenti
/vicino la fiumarella
sull’erba tenera con gaia
guida d’una leggiadra pastorella,
che di tanto in tanto rincorreva
le stupide pecore belanti;
così fresca allegria faceva
su quei colli con grida e canti.
L’erbosa valle s’estendeva rigogliosa,
vicino ad una cittadella radiosa
chiamata Segesta, ch’era famosa
per il commercio e le sue gesta.
Sulla vicina piazza a sera
/si radunava la gente mesta,
in processione andava portando
fiori e ceri, a ritmo danzando…
inneggiavano cantando un inno sacro
/al tempio.
Lì giunti e prostrati al Dio,
si consumavano i ceri in silenzio pio,
ciascuno si chiudeva nel proprio io.
Coscienziose dell’offerte opulenti,
le fanciulle sfilavano nei loro panni,
offrivano con gesti lenti
i canestri colmi di frutta e carni.
S’uccideva il bue, l’agnello…
Continuavano le danze a notte fonda,
finché nell’oscuro mantello,
lasciava all’alba l’ultima sua onda.
Da lì a poco il tempio s’illuminava
/di tenui luci,
imponendosi maestoso tra il volo d’uccelli.
I festanti stanchi lasciavano alle fauci
dei lupi le ossa e le pelli;
poi rinvigoriti dall’alba gioiosa,
iniziavano da amici e fratelli
a lavorare la terra non più ombrosa.
Anche la pastorella, di nome Altèa,
volgendo lo sguardo all’aurora,
si spogliò delle sue vesti, altera
nella fiorita primavera,
rincorrendo le pecore ogn’ora.
Visto che le danze e canti
/divennero i misteri,
si costruì un teatro di forma circolare,
ove lasciare i propri pensieri.
Allora, volò in circolo alare
una bianca tenera colomba…
si pensò portasse dai vicini Greci
delle buone nuove tratte dall’ombra
dell’imminente guerra con i Fenici.
Ma…le acque minacciose s’estesero
a deturpar le vicine sponde.
Zeus furente dipinse il cielo di nero
così pure il mare colle sue onde.
L’ammonimento fu valido per un anno,
così, si riprese a danzare, a cantare
senza pensare ad alcun affanno.
S’offrirono fiori sull’altare…
Dalle taverne Bacco usci tra i vicoli sinuosi
offrendo il novello vino rosso e bianco;
e Sileno seguì traballante gli amorosi
nel frenetico ballo fianco a fianco.
Altèa, fanciulla bella e sana,
non conosceva ancor alcun uomo;
ma pensava sola nella sua tana
d’incontrar il suo principe buono.
Furono eretti molti santuari
agli Dei dell’Olimpo, si dettero feste
/alle Delphinia,
che a primavera e alle fasi lunari,
facevan gustare le primizie offerte dalle Thargelia.
Ma per selve inesplorate e valli ombrose,
aspetto guerriero assunse la festa d’Apollo,
dio dall’arco d’argento e dalle frecce radiose.
Colà giunse, attirato da una cerva e da un pollo,
un giovane, Atteòne famoso cacciatore.
L’ospitale isola accolse pure Artèmide la bionda
anch’ella amante dell’arco, la faretra in tutte l’ore.
Le frecce dalle punte d’oro scoccate dalla bionda
andavano dritte al segno tra fronzuti faggi.
In compagnia di Ninfe e giovanette mortali
trascorreva le sue giornate con assaggi
di lepri, lungi dalla guerra e dai mali.
Atteòne s’avvicinò per ammirare
da vicino la dea, che celere col cavo della mano
spruzzò semplice acqua di mare
in faccia al cacciatore sin allora umano.
Subito ad Atteòne spuntarono le corna, il pelo,
gli si mutarono in zampe le mani,
ansante fuggì affrontando il gelo
disperatamente inseguito dai suoi stessi cani.
Però la bella Artèmide era d’animo gentile,
protesse le donne che a lei si rivolgevano
e sempre ne alleviò i dolori amari come la bile.
Sulla spiaggia sicana le sirene cantavano,
l’acque si quietavano e posavano i venti,
i naviganti quelle voci leggiadre udivano,
veleggiavano emozionati battendo i denti.
Così attratti dalle Ninfe formose,
dimenticarono le mogli partorienti,
e come d’incanto furon attratti da inutili cose.
Le donne a terra si tiravano i capelli,
gridavano strappandosi le vesti consunte…
Lì vicino altri uomini ponevano gioielli
sui gradini dei templi di Selinunte.
Tutto quel vociare stralunato
sulle lunghe spiagge indorate
annebbiò la vista e mozzò il fiato
ai marinai per intere giornate.
Lontana dal frastuono, Altèa sognava
con le sue pecore belanti
ed una calda preghiera volgeva
ai numerosi Dei vaganti
tra le calcaree colonne poste a dismisura
sui verdi colli e sulle pianure estese
volte al cielo e alle stelle
/con le maestose mura.
Povera, solitaria, bella ma cortese
Altèa tra le canne della fiumarella
vide muoversi qualcosa;
subito sentì nel suo cuore una fiammella…
Era un giovane! Divenne radiosa.
S’aggirava guardingo tra gli arbusti
un abile cacciatore di nome Oriòne
col suo cane, le frecce, gl’archi giusti,
con coltelli ed anche un piccone.
Alla vista della bella giovinetta
il suo sguardo divenne smagliante,
simile ad una cerva su d’una vetta,
l’osservò immobile e ansante:
“Qual è il tuo nome? O gracile fanciulla!
Un egual fiore non sboccia in tal luogo,
né agile gazzella si ferma nel nulla
ad osservar le proprie carni presto sul rogo!”
La giovane, timida e pensosa alle crude parole
del cacciator spavaldo, indietreggiò:
“Il mio nome è Altèa…” il suo viso
/avvampò come il sole
“ sono sola con le pecore” balbettò.
L’abile Oriòne sfrecciò un sorriso:
“Allora tra i templi cacciagione ce n’é tanta!
Non puoi nascondere il rossor del tuo viso!
Se parlar non vuoi, almeno canta”
Così un leggero suono di piffero di canna
si levò attorno con armoniose note,
le membra si sciolsero come fior di panna
e al sole più bianche erano le sue gote.
A tal inusitata timida bellezza
Oriòne non esitò a farle un dono
trasse dalla farètra con gaiezza
un piccolo anello cantando così a tono:
“Non vedranno mai i miei occhi
cotanta bellezza calpestar le zolle!
Le note vagar eleganti ai tocchi
delle sottili labbra empiendo
/di magia il colle,
di fiori profumati è colma l’aria fine
e dolce amor cosparge la tua danza!
Raggio di sole è il dorato crine,
batte il mio cuore con baldanza…
Tal dono è piccola cosa!
Non voglia Venere adombrarsi
per la terrena bellezza gioiosa,
ma faccia sì che amarsi
sia accompagnato da simil canto
tra i templi maestosi”.
Nella prospiciente verde valle
un volo di stormi copiosi
si levò tra i rami dell’irto calle,
Sìrio, fido cane d’Oriòne, puntò
le astute orecchie pronto a prendere
la selvaggina, tra sterpi e sassi saltò
baldanzoso cominciando ad abbaiare.
Il cielo si cosparse di fitte frecce
che l’abile cacciator scagliò tra i colombi…
Altèa d’istinto sciolse le bionde trecce,
indi indietreggiò muovendo
/gli scultorei lombi;
l’anello intanto provava alle dita, timorosa
per distoglier Oriòne ed il suo cane ansante.
Artèmide della sua abilità gelosa,
disdegnava tal puro sentimento gigante,
schioccò due frecce dritte ai cuori
di Sirio e Oriòne che tramortiron tra le canne.
Zeus, che dall’Olimpo, scrutava fuori…
da tali gesta inusitate volle trarne
il ricordo del cacciator e del suo fido
in mirabile eterna costellazione.
Ad Altèa rimase l’anello al dito,
un attimo d’amore che non fu finzione;
guardò in alto l’oscuro cielo,
intravide tra le stelle severe e immote
la costellazione… commossa si tolse il velo.
L’amor, che segnò il giovine cuore,
mutò il destino in caparbio e duro…
L’odio si versò su Artèmide in tutte l’ore,
serbò l’aureo anello sotto un muro.
Altèa divenne fragile e cogli anni vecchia.
Sirio e Orine stanno ancor lì tra le stelle
a guardar la stanca terra senza macchia
divenuta rinsecchita e senza pelle.
Giovanni Teresi
Sulle chete colline ridenti
Zefiro soffiò con inaudite forze
sollevando sterpi e polveri ingenti;
preparava la terra ad accoglier
/nelle pozze
le acque fertili con gioia…
Transumavano gli armenti
/vicino la fiumarella
sull’erba tenera con gaia
guida d’una leggiadra pastorella,
che di tanto in tanto rincorreva
le stupide pecore belanti;
così fresca allegria faceva
su quei colli con grida e canti.
L’erbosa valle s’estendeva rigogliosa,
vicino ad una cittadella radiosa
chiamata Segesta, ch’era famosa
per il commercio e le sue gesta.
Sulla vicina piazza a sera
/si radunava la gente mesta,
in processione andava portando
fiori e ceri, a ritmo danzando…
inneggiavano cantando un inno sacro
/al tempio.
Lì giunti e prostrati al Dio,
si consumavano i ceri in silenzio pio,
ciascuno si chiudeva nel proprio io.
Coscienziose dell’offerte opulenti,
le fanciulle sfilavano nei loro panni,
offrivano con gesti lenti
i canestri colmi di frutta e carni.
S’uccideva il bue, l’agnello…
Continuavano le danze a notte fonda,
finché nell’oscuro mantello,
lasciava all’alba l’ultima sua onda.
Da lì a poco il tempio s’illuminava
/di tenui luci,
imponendosi maestoso tra il volo d’uccelli.
I festanti stanchi lasciavano alle fauci
dei lupi le ossa e le pelli;
poi rinvigoriti dall’alba gioiosa,
iniziavano da amici e fratelli
a lavorare la terra non più ombrosa.
Anche la pastorella, di nome Altèa,
volgendo lo sguardo all’aurora,
si spogliò delle sue vesti, altera
nella fiorita primavera,
rincorrendo le pecore ogn’ora.
Visto che le danze e canti
/divennero i misteri,
si costruì un teatro di forma circolare,
ove lasciare i propri pensieri.
Allora, volò in circolo alare
una bianca tenera colomba…
si pensò portasse dai vicini Greci
delle buone nuove tratte dall’ombra
dell’imminente guerra con i Fenici.
Ma…le acque minacciose s’estesero
a deturpar le vicine sponde.
Zeus furente dipinse il cielo di nero
così pure il mare colle sue onde.
L’ammonimento fu valido per un anno,
così, si riprese a danzare, a cantare
senza pensare ad alcun affanno.
S’offrirono fiori sull’altare…
Dalle taverne Bacco usci tra i vicoli sinuosi
offrendo il novello vino rosso e bianco;
e Sileno seguì traballante gli amorosi
nel frenetico ballo fianco a fianco.
Altèa, fanciulla bella e sana,
non conosceva ancor alcun uomo;
ma pensava sola nella sua tana
d’incontrar il suo principe buono.
Furono eretti molti santuari
agli Dei dell’Olimpo, si dettero feste
/alle Delphinia,
che a primavera e alle fasi lunari,
facevan gustare le primizie offerte dalle Thargelia.
Ma per selve inesplorate e valli ombrose,
aspetto guerriero assunse la festa d’Apollo,
dio dall’arco d’argento e dalle frecce radiose.
Colà giunse, attirato da una cerva e da un pollo,
un giovane, Atteòne famoso cacciatore.
L’ospitale isola accolse pure Artèmide la bionda
anch’ella amante dell’arco, la faretra in tutte l’ore.
Le frecce dalle punte d’oro scoccate dalla bionda
andavano dritte al segno tra fronzuti faggi.
In compagnia di Ninfe e giovanette mortali
trascorreva le sue giornate con assaggi
di lepri, lungi dalla guerra e dai mali.
Atteòne s’avvicinò per ammirare
da vicino la dea, che celere col cavo della mano
spruzzò semplice acqua di mare
in faccia al cacciatore sin allora umano.
Subito ad Atteòne spuntarono le corna, il pelo,
gli si mutarono in zampe le mani,
ansante fuggì affrontando il gelo
disperatamente inseguito dai suoi stessi cani.
Però la bella Artèmide era d’animo gentile,
protesse le donne che a lei si rivolgevano
e sempre ne alleviò i dolori amari come la bile.
Sulla spiaggia sicana le sirene cantavano,
l’acque si quietavano e posavano i venti,
i naviganti quelle voci leggiadre udivano,
veleggiavano emozionati battendo i denti.
Così attratti dalle Ninfe formose,
dimenticarono le mogli partorienti,
e come d’incanto furon attratti da inutili cose.
Le donne a terra si tiravano i capelli,
gridavano strappandosi le vesti consunte…
Lì vicino altri uomini ponevano gioielli
sui gradini dei templi di Selinunte.
Tutto quel vociare stralunato
sulle lunghe spiagge indorate
annebbiò la vista e mozzò il fiato
ai marinai per intere giornate.
Lontana dal frastuono, Altèa sognava
con le sue pecore belanti
ed una calda preghiera volgeva
ai numerosi Dei vaganti
tra le calcaree colonne poste a dismisura
sui verdi colli e sulle pianure estese
volte al cielo e alle stelle
/con le maestose mura.
Povera, solitaria, bella ma cortese
Altèa tra le canne della fiumarella
vide muoversi qualcosa;
subito sentì nel suo cuore una fiammella…
Era un giovane! Divenne radiosa.
S’aggirava guardingo tra gli arbusti
un abile cacciatore di nome Oriòne
col suo cane, le frecce, gl’archi giusti,
con coltelli ed anche un piccone.
Alla vista della bella giovinetta
il suo sguardo divenne smagliante,
simile ad una cerva su d’una vetta,
l’osservò immobile e ansante:
“Qual è il tuo nome? O gracile fanciulla!
Un egual fiore non sboccia in tal luogo,
né agile gazzella si ferma nel nulla
ad osservar le proprie carni presto sul rogo!”
La giovane, timida e pensosa alle crude parole
del cacciator spavaldo, indietreggiò:
“Il mio nome è Altèa…” il suo viso
/avvampò come il sole
“ sono sola con le pecore” balbettò.
L’abile Oriòne sfrecciò un sorriso:
“Allora tra i templi cacciagione ce n’é tanta!
Non puoi nascondere il rossor del tuo viso!
Se parlar non vuoi, almeno canta”
Così un leggero suono di piffero di canna
si levò attorno con armoniose note,
le membra si sciolsero come fior di panna
e al sole più bianche erano le sue gote.
A tal inusitata timida bellezza
Oriòne non esitò a farle un dono
trasse dalla farètra con gaiezza
un piccolo anello cantando così a tono:
“Non vedranno mai i miei occhi
cotanta bellezza calpestar le zolle!
Le note vagar eleganti ai tocchi
delle sottili labbra empiendo
/di magia il colle,
di fiori profumati è colma l’aria fine
e dolce amor cosparge la tua danza!
Raggio di sole è il dorato crine,
batte il mio cuore con baldanza…
Tal dono è piccola cosa!
Non voglia Venere adombrarsi
per la terrena bellezza gioiosa,
ma faccia sì che amarsi
sia accompagnato da simil canto
tra i templi maestosi”.
Nella prospiciente verde valle
un volo di stormi copiosi
si levò tra i rami dell’irto calle,
Sìrio, fido cane d’Oriòne, puntò
le astute orecchie pronto a prendere
la selvaggina, tra sterpi e sassi saltò
baldanzoso cominciando ad abbaiare.
Il cielo si cosparse di fitte frecce
che l’abile cacciator scagliò tra i colombi…
Altèa d’istinto sciolse le bionde trecce,
indi indietreggiò muovendo
/gli scultorei lombi;
l’anello intanto provava alle dita, timorosa
per distoglier Oriòne ed il suo cane ansante.
Artèmide della sua abilità gelosa,
disdegnava tal puro sentimento gigante,
schioccò due frecce dritte ai cuori
di Sirio e Oriòne che tramortiron tra le canne.
Zeus, che dall’Olimpo, scrutava fuori…
da tali gesta inusitate volle trarne
il ricordo del cacciator e del suo fido
in mirabile eterna costellazione.
Ad Altèa rimase l’anello al dito,
un attimo d’amore che non fu finzione;
guardò in alto l’oscuro cielo,
intravide tra le stelle severe e immote
la costellazione… commossa si tolse il velo.
L’amor, che segnò il giovine cuore,
mutò il destino in caparbio e duro…
L’odio si versò su Artèmide in tutte l’ore,
serbò l’aureo anello sotto un muro.
Altèa divenne fragile e cogli anni vecchia.
Sirio e Orine stanno ancor lì tra le stelle
a guardar la stanca terra senza macchia
divenuta rinsecchita e senza pelle.
Giovanni Teresi