Guido Gozzano
Inviato: 19/12/2013, 10:36
Laus Matris
Laudato sii, mi Domine, cum tucte le criature
(FRATE SERAFICO: Cantico del sole)
O figlio, canta anche il tuo alloro!
Laus vitae - GABRIELE D'ANNUNZIO)
Laudata sii dal figlio
che, compiuti vent'anni
oggi lascia li inganni
ritorna come giglio.
Oggi il candor riceve
sull'anima perduta
della bianca caduta
in terra prima neve,
se la tua mano fina
sì tenera e sì affranta
recando l'Ostia Santa
verso di lui s'inchina.
Egli che tu ben sai
per motivo nessuno
ai ginocchi d'alcuno
non si prostese mai,
ai tuoi ginocchi indice
l'umilicordia e attende
mentre i labbri protende
all'ostia redentrice.
Oggi, lasciati i gaudi
e i canti del Piacere,
solleva l'incensiere
di tutte le sue laudi.
Laudata per l'amore
- il solo di sua vita -
per sua dolce infinita
pazienza nel dolore.
Eretta sullo stelo
o Rosa adamantina
invitta a la ruina,
invitta a lo sfacelo,
la casa il gran valore
sorregge di sue vene,
come i solchi trattiene
la radice di un fiore.
Più che la laboriosa
femina dell'Ebreo,
Madre di Galileo,
o madre mia dogliosa,
voglio esaltarti: voglio
su le tempie che adoro
recingere l'alloro
del mio protervo orgoglio.
Laudata sii. Il greve
peso dell'esser mio
nel mese che un iddio
nasceva su la neve
tu desti in luce. Forse
venne l'Annunciatore
e il bacio del Signore
anche al tuo labbro porse?
O sogno! Allora anch'io
(il supremo che agogno
sogno è raggiunto. O sogno!)
son figlio d'un iddio?
Ho un biasimo solo dal quale
saprai la mia gioia di vita.
Perché non mi hai fatto immortale?
____________________________
Suprema quies
Serrati i pugni bianchi come cera
giace supino in terra arrovesciato
e la faccia pel rivo insanguinato
è quasi nera.
Con orrido rilievo l'apertura
della ferita tutto il sangue aduna
su la nuca, sul collo, su la bruna
capellatura.
Giace supino. E non sembra dolere
la bella bocca. Quasi ch'Egli avvinga
ancor la Donna e la sua bocca attinga
tutto il piacere.
Due lumi sopra un cofano. Quei lumi
rischiarano il silenzio sepolcrale:
allineati stan nello scaffale
mille volumi
che alluminava un mastro fiorentino
d'orifiamme e d'armille in cento nodi.
Aperti sul divano soni i «Modi»
dell'Aretino
e sul divano è un guanto che rimosse
qui, nell'entrar, la Donna del Convito
ed un mazzo sfasciato ed avvizzito
di rose rosse.
Guata con gli occhi di mestizia pieni
in capo al letto sull'arazzo infisso
dolentemente immoto il crocifisso
di Guido Reni.
Notte e silenzio intorno. Tutto tace.
Come in un sogno d'armonia perplessa
al Poeta ventenne è già concessa
l'ultima pace.
____________________________
Il frutteto
Anche né malinconico né lieto
(forse la consuetudine assecondo
cara d'un tempo al bel fanciullo biondo)
oggi varco la soglia del frutteto.
Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!
È bene questo il luogo; in questa calma
conchiusa, certo l'intangibil salma
giacque per sempre dell'amor ucciso,
del vero antico Amore ch'io cercai
malinconicamente per l'inquieta
mia giovinezza, la raggiante mèta
sì perseguìta e non raggiunta mai.
Or mi soffermo con pupille intente:
le cose mi ritornano lontano
nel Tempo - irrevocabile richiamo! -
mi rivedo fanciullo, adolescente.
O belle, belle come i belli nomi,
Simona e Gasparina, le gemelle!
Pur vi rivedo in vesta d'angelelle
dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.
Ed anche qui le statue e le siepi
ed il busso ribelle alle cesoie.
(Natali dell'infanzia, o buone gioie,
quando n'ornavo i colli dei presepi!)
Ma sull'erme, sui cori, sopra il busso
simmetrico, sui lauri, sugli spessi
carpini, sulle rose, sui cipressi,
sulle vestigia dell'antico lusso
da cento anni un folto si compose
di pomi e peri; il regno statuario
ricoperse; nel florido sudario
sfiorirono le siepi delle rose;
nell'ombre il musco ricoperse i cori
curvi di marmo intatto (l'Antenata
non vede lo sfacelo, contristata?)
e nell'ombre languirono gli allori.
Son l'ombre di una gran pace tranquille:
il sole, trasparendo dall'intrico,
segna la ghiaia del giardino antico
di monete, di lunule, d'armille.
M'avanzo pel sentiero ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto;
ascolto il gran silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d'un frutto.
Ma quanti frutti! Cadono in gran copia
in terra, sui busseti, sui rosai:
sire Autunno, quest'anno come mai,
munifico vuotò la cornucopia.
O gioco strano! Pur nella faretra
di Diana cadde una perfetta pera,
così perfetta che non sembra vera
ma sculturata nell'istessa pietra.
Il frutto altorecato assai mi tenta:
balzo sul plinto, il dono della Terra
tolgo alli acuti simboli di Guerra,
avvincendomi all'erma sonnolenta.
S'adonta ella, forse, ch'io la tocchi,
l'erma dal guardo gelido e sinistro?
(il tempo edace lineò di bistro
le palpebre lapidee delli occhi).
Ma un sorriso ermetico, ha la faccia
attirante, soffuso di promesse,
- O miti elleni! - s'ella mi stringesse
d'improvviso, così, tra le sue braccia! -
E tolgo e mordo il frutto avventurato
e mi pare di suggere dal frutto
un'infinita pace, un bene, tutto
tutto l'oblio del tedio e del passato.
Ma guardo in torno. Vedo teoria
d'erme ridenti in loro bianche clamidi,
ridendi tra le squallide piramidi
del busso. - Torna la malinconia:
Ridevano così quando mio padre
esalò la grande anima e pur tali
(udranno allor le mie grida mortali?)
sorrideranno e morirà mia madre.
Ridevano così che nella culla
dormivo inconsapevole d'affanno:
implacabili ancor sorrideranno
quando di me non resterà più nulla.
____________________________
A un demagogo
Tu dici bene: è tempo che consacri
ai fratelli la mente che si estolle
anche il poeta, citaredo folle
rapido negli antichi simulacri!
Non più le tempie coronate d'acri
serti di rose alla Bellezza molle;
venga all'aperto! Canti tra le folle,
stenda la mano ai suoi fratelli sacri!
E tu non mi perdoni se m'indugio,
poiché di rose non si fanno spade
per la lotta dei tuoi sogni vermigli.
Ma un fiore gitterò dal mio rifugio
sempre a chi soffre e sogna e piange e cade.
Eccoti un fiore, o tu che mi somigli!
Guido Gozzano
Laudato sii, mi Domine, cum tucte le criature
(FRATE SERAFICO: Cantico del sole)
O figlio, canta anche il tuo alloro!
Laus vitae - GABRIELE D'ANNUNZIO)
Laudata sii dal figlio
che, compiuti vent'anni
oggi lascia li inganni
ritorna come giglio.
Oggi il candor riceve
sull'anima perduta
della bianca caduta
in terra prima neve,
se la tua mano fina
sì tenera e sì affranta
recando l'Ostia Santa
verso di lui s'inchina.
Egli che tu ben sai
per motivo nessuno
ai ginocchi d'alcuno
non si prostese mai,
ai tuoi ginocchi indice
l'umilicordia e attende
mentre i labbri protende
all'ostia redentrice.
Oggi, lasciati i gaudi
e i canti del Piacere,
solleva l'incensiere
di tutte le sue laudi.
Laudata per l'amore
- il solo di sua vita -
per sua dolce infinita
pazienza nel dolore.
Eretta sullo stelo
o Rosa adamantina
invitta a la ruina,
invitta a lo sfacelo,
la casa il gran valore
sorregge di sue vene,
come i solchi trattiene
la radice di un fiore.
Più che la laboriosa
femina dell'Ebreo,
Madre di Galileo,
o madre mia dogliosa,
voglio esaltarti: voglio
su le tempie che adoro
recingere l'alloro
del mio protervo orgoglio.
Laudata sii. Il greve
peso dell'esser mio
nel mese che un iddio
nasceva su la neve
tu desti in luce. Forse
venne l'Annunciatore
e il bacio del Signore
anche al tuo labbro porse?
O sogno! Allora anch'io
(il supremo che agogno
sogno è raggiunto. O sogno!)
son figlio d'un iddio?
Ho un biasimo solo dal quale
saprai la mia gioia di vita.
Perché non mi hai fatto immortale?
____________________________
Suprema quies
Serrati i pugni bianchi come cera
giace supino in terra arrovesciato
e la faccia pel rivo insanguinato
è quasi nera.
Con orrido rilievo l'apertura
della ferita tutto il sangue aduna
su la nuca, sul collo, su la bruna
capellatura.
Giace supino. E non sembra dolere
la bella bocca. Quasi ch'Egli avvinga
ancor la Donna e la sua bocca attinga
tutto il piacere.
Due lumi sopra un cofano. Quei lumi
rischiarano il silenzio sepolcrale:
allineati stan nello scaffale
mille volumi
che alluminava un mastro fiorentino
d'orifiamme e d'armille in cento nodi.
Aperti sul divano soni i «Modi»
dell'Aretino
e sul divano è un guanto che rimosse
qui, nell'entrar, la Donna del Convito
ed un mazzo sfasciato ed avvizzito
di rose rosse.
Guata con gli occhi di mestizia pieni
in capo al letto sull'arazzo infisso
dolentemente immoto il crocifisso
di Guido Reni.
Notte e silenzio intorno. Tutto tace.
Come in un sogno d'armonia perplessa
al Poeta ventenne è già concessa
l'ultima pace.
____________________________
Il frutteto
Anche né malinconico né lieto
(forse la consuetudine assecondo
cara d'un tempo al bel fanciullo biondo)
oggi varco la soglia del frutteto.
Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!
È bene questo il luogo; in questa calma
conchiusa, certo l'intangibil salma
giacque per sempre dell'amor ucciso,
del vero antico Amore ch'io cercai
malinconicamente per l'inquieta
mia giovinezza, la raggiante mèta
sì perseguìta e non raggiunta mai.
Or mi soffermo con pupille intente:
le cose mi ritornano lontano
nel Tempo - irrevocabile richiamo! -
mi rivedo fanciullo, adolescente.
O belle, belle come i belli nomi,
Simona e Gasparina, le gemelle!
Pur vi rivedo in vesta d'angelelle
dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.
Ed anche qui le statue e le siepi
ed il busso ribelle alle cesoie.
(Natali dell'infanzia, o buone gioie,
quando n'ornavo i colli dei presepi!)
Ma sull'erme, sui cori, sopra il busso
simmetrico, sui lauri, sugli spessi
carpini, sulle rose, sui cipressi,
sulle vestigia dell'antico lusso
da cento anni un folto si compose
di pomi e peri; il regno statuario
ricoperse; nel florido sudario
sfiorirono le siepi delle rose;
nell'ombre il musco ricoperse i cori
curvi di marmo intatto (l'Antenata
non vede lo sfacelo, contristata?)
e nell'ombre languirono gli allori.
Son l'ombre di una gran pace tranquille:
il sole, trasparendo dall'intrico,
segna la ghiaia del giardino antico
di monete, di lunule, d'armille.
M'avanzo pel sentiero ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto;
ascolto il gran silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d'un frutto.
Ma quanti frutti! Cadono in gran copia
in terra, sui busseti, sui rosai:
sire Autunno, quest'anno come mai,
munifico vuotò la cornucopia.
O gioco strano! Pur nella faretra
di Diana cadde una perfetta pera,
così perfetta che non sembra vera
ma sculturata nell'istessa pietra.
Il frutto altorecato assai mi tenta:
balzo sul plinto, il dono della Terra
tolgo alli acuti simboli di Guerra,
avvincendomi all'erma sonnolenta.
S'adonta ella, forse, ch'io la tocchi,
l'erma dal guardo gelido e sinistro?
(il tempo edace lineò di bistro
le palpebre lapidee delli occhi).
Ma un sorriso ermetico, ha la faccia
attirante, soffuso di promesse,
- O miti elleni! - s'ella mi stringesse
d'improvviso, così, tra le sue braccia! -
E tolgo e mordo il frutto avventurato
e mi pare di suggere dal frutto
un'infinita pace, un bene, tutto
tutto l'oblio del tedio e del passato.
Ma guardo in torno. Vedo teoria
d'erme ridenti in loro bianche clamidi,
ridendi tra le squallide piramidi
del busso. - Torna la malinconia:
Ridevano così quando mio padre
esalò la grande anima e pur tali
(udranno allor le mie grida mortali?)
sorrideranno e morirà mia madre.
Ridevano così che nella culla
dormivo inconsapevole d'affanno:
implacabili ancor sorrideranno
quando di me non resterà più nulla.
____________________________
A un demagogo
Tu dici bene: è tempo che consacri
ai fratelli la mente che si estolle
anche il poeta, citaredo folle
rapido negli antichi simulacri!
Non più le tempie coronate d'acri
serti di rose alla Bellezza molle;
venga all'aperto! Canti tra le folle,
stenda la mano ai suoi fratelli sacri!
E tu non mi perdoni se m'indugio,
poiché di rose non si fanno spade
per la lotta dei tuoi sogni vermigli.
Ma un fiore gitterò dal mio rifugio
sempre a chi soffre e sogna e piange e cade.
Eccoti un fiore, o tu che mi somigli!
Guido Gozzano