Giovanni Teresi

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Giovanni Teresi

Giovanni Teresi

Messaggio da Giovanni Teresi »

L’amore platonico

Sulle chete colline ridenti
Zefiro soffiò con inaudite forze
sollevando sterpi e polveri ingenti;
preparava la terra ad accoglier
/nelle pozze
le acque fertili con gioia…
Transumavano gli armenti
/vicino la fiumarella
sull’erba tenera con gaia
guida d’una leggiadra pastorella,
che di tanto in tanto rincorreva
le stupide pecore belanti;
così fresca allegria faceva
su quei colli con grida e canti.
L’erbosa valle s’estendeva rigogliosa,
vicino ad una cittadella radiosa
chiamata Segesta, ch’era famosa
per il commercio e le sue gesta.
Sulla vicina piazza a sera
/si radunava la gente mesta,
in processione andava portando
fiori e ceri, a ritmo danzando…
inneggiavano cantando un inno sacro
/al tempio.
Lì giunti e prostrati al Dio,
si consumavano i ceri in silenzio pio,
ciascuno si chiudeva nel proprio io.
Coscienziose dell’offerte opulenti,
le fanciulle sfilavano nei loro panni,
offrivano con gesti lenti
i canestri colmi di frutta e carni.
S’uccideva il bue, l’agnello…
Continuavano le danze a notte fonda,
finché nell’oscuro mantello,
lasciava all’alba l’ultima sua onda.
Da lì a poco il tempio s’illuminava
/di tenui luci,
imponendosi maestoso tra il volo d’uccelli.
I festanti stanchi lasciavano alle fauci
dei lupi le ossa e le pelli;
poi rinvigoriti dall’alba gioiosa,
iniziavano da amici e fratelli
a lavorare la terra non più ombrosa.
Anche la pastorella, di nome Altèa,
volgendo lo sguardo all’aurora,
si spogliò delle sue vesti, altera
nella fiorita primavera,
rincorrendo le pecore ogn’ora.
Visto che le danze e canti
/divennero i misteri,
si costruì un teatro di forma circolare,
ove lasciare i propri pensieri.
Allora, volò in circolo alare
una bianca tenera colomba…
si pensò portasse dai vicini Greci
delle buone nuove tratte dall’ombra
dell’imminente guerra con i Fenici.
Ma…le acque minacciose s’estesero
a deturpar le vicine sponde.
Zeus furente dipinse il cielo di nero
così pure il mare colle sue onde.
L’ammonimento fu valido per un anno,
così, si riprese a danzare, a cantare
senza pensare ad alcun affanno.
S’offrirono fiori sull’altare…
Dalle taverne Bacco usci tra i vicoli sinuosi
offrendo il novello vino rosso e bianco;
e Sileno seguì traballante gli amorosi
nel frenetico ballo fianco a fianco.
Altèa, fanciulla bella e sana,
non conosceva ancor alcun uomo;
ma pensava sola nella sua tana
d’incontrar il suo principe buono.
Furono eretti molti santuari
agli Dei dell’Olimpo, si dettero feste
/alle Delphinia,
che a primavera e alle fasi lunari,
facevan gustare le primizie offerte dalle Thargelia.
Ma per selve inesplorate e valli ombrose,
aspetto guerriero assunse la festa d’Apollo,
dio dall’arco d’argento e dalle frecce radiose.
Colà giunse, attirato da una cerva e da un pollo,
un giovane, Atteòne famoso cacciatore.
L’ospitale isola accolse pure Artèmide la bionda
anch’ella amante dell’arco, la faretra in tutte l’ore.
Le frecce dalle punte d’oro scoccate dalla bionda
andavano dritte al segno tra fronzuti faggi.
In compagnia di Ninfe e giovanette mortali
trascorreva le sue giornate con assaggi
di lepri, lungi dalla guerra e dai mali.
Atteòne s’avvicinò per ammirare
da vicino la dea, che celere col cavo della mano
spruzzò semplice acqua di mare
in faccia al cacciatore sin allora umano.
Subito ad Atteòne spuntarono le corna, il pelo,
gli si mutarono in zampe le mani,
ansante fuggì affrontando il gelo
disperatamente inseguito dai suoi stessi cani.
Però la bella Artèmide era d’animo gentile,
protesse le donne che a lei si rivolgevano
e sempre ne alleviò i dolori amari come la bile.
Sulla spiaggia sicana le sirene cantavano,
l’acque si quietavano e posavano i venti,
i naviganti quelle voci leggiadre udivano,
veleggiavano emozionati battendo i denti.
Così attratti dalle Ninfe formose,
dimenticarono le mogli partorienti,
e come d’incanto furon attratti da inutili cose.
Le donne a terra si tiravano i capelli,
gridavano strappandosi le vesti consunte…
Lì vicino altri uomini ponevano gioielli
sui gradini dei templi di Selinunte.
Tutto quel vociare stralunato
sulle lunghe spiagge indorate
annebbiò la vista e mozzò il fiato
ai marinai per intere giornate.
Lontana dal frastuono, Altèa sognava
con le sue pecore belanti
ed una calda preghiera volgeva
ai numerosi Dei vaganti
tra le calcaree colonne poste a dismisura
sui verdi colli e sulle pianure estese
volte al cielo e alle stelle
/con le maestose mura.
Povera, solitaria, bella ma cortese
Altèa tra le canne della fiumarella
vide muoversi qualcosa;
subito sentì nel suo cuore una fiammella…
Era un giovane! Divenne radiosa.
S’aggirava guardingo tra gli arbusti
un abile cacciatore di nome Oriòne
col suo cane, le frecce, gl’archi giusti,
con coltelli ed anche un piccone.
Alla vista della bella giovinetta
il suo sguardo divenne smagliante,
simile ad una cerva su d’una vetta,
l’osservò immobile e ansante:
“Qual è il tuo nome? O gracile fanciulla!
Un egual fiore non sboccia in tal luogo,
né agile gazzella si ferma nel nulla
ad osservar le proprie carni presto sul rogo!”
La giovane, timida e pensosa alle crude parole
del cacciator spavaldo, indietreggiò:
“Il mio nome è Altèa…” il suo viso
/avvampò come il sole
“ sono sola con le pecore” balbettò.
L’abile Oriòne sfrecciò un sorriso:
“Allora tra i templi cacciagione ce n’é tanta!
Non puoi nascondere il rossor del tuo viso!
Se parlar non vuoi, almeno canta”


Così un leggero suono di piffero di canna
si levò attorno con armoniose note,
le membra si sciolsero come fior di panna
e al sole più bianche erano le sue gote.
A tal inusitata timida bellezza
Oriòne non esitò a farle un dono
trasse dalla farètra con gaiezza
un piccolo anello cantando così a tono:
“Non vedranno mai i miei occhi
cotanta bellezza calpestar le zolle!
Le note vagar eleganti ai tocchi
delle sottili labbra empiendo
/di magia il colle,
di fiori profumati è colma l’aria fine
e dolce amor cosparge la tua danza!
Raggio di sole è il dorato crine,
batte il mio cuore con baldanza…
Tal dono è piccola cosa!
Non voglia Venere adombrarsi
per la terrena bellezza gioiosa,
ma faccia sì che amarsi
sia accompagnato da simil canto
tra i templi maestosi”.
Nella prospiciente verde valle
un volo di stormi copiosi
si levò tra i rami dell’irto calle,
Sìrio, fido cane d’Oriòne, puntò
le astute orecchie pronto a prendere
la selvaggina, tra sterpi e sassi saltò
baldanzoso cominciando ad abbaiare.
Il cielo si cosparse di fitte frecce
che l’abile cacciator scagliò tra i colombi…
Altèa d’istinto sciolse le bionde trecce,
indi indietreggiò muovendo
/gli scultorei lombi;
l’anello intanto provava alle dita, timorosa
per distoglier Oriòne ed il suo cane ansante.
Artèmide della sua abilità gelosa,
disdegnava tal puro sentimento gigante,
schioccò due frecce dritte ai cuori
di Sirio e Oriòne che tramortiron tra le canne.
Zeus, che dall’Olimpo, scrutava fuori…
da tali gesta inusitate volle trarne
il ricordo del cacciator e del suo fido
in mirabile eterna costellazione.
Ad Altèa rimase l’anello al dito,
un attimo d’amore che non fu finzione;
guardò in alto l’oscuro cielo,
intravide tra le stelle severe e immote
la costellazione… commossa si tolse il velo.

L’amor, che segnò il giovine cuore,
mutò il destino in caparbio e duro…
L’odio si versò su Artèmide in tutte l’ore,
serbò l’aureo anello sotto un muro.
Altèa divenne fragile e cogli anni vecchia.
Sirio e Orine stanno ancor lì tra le stelle
a guardar la stanca terra senza macchia
divenuta rinsecchita e senza pelle.

Giovanni Teresi
Giovanni Teresi

Messaggio da Giovanni Teresi »

Il figlio della pioggia d’oro

Iniziò una pioggia leggera,

poi sottile e portentosa…

L’aria mandava riflessi, n’era

piena di luccichii ed odorosa.

Coprì d’oro la torre marmorea

ove Acrìsio aveva rinchiuso la figlia

Dànae, bellissima pari ad una dea.

Il terribile Fato, giunto da parecchie miglia,

fece che la pioggia entrasse

dalle sottili fessure nella squallida cella,

ove giaceva sotto le umide asse

Dànae con la pallida ancella.

Zeus era la pioggia dorata,

desideroso d’unirsi con la figlia di Acrìsio,

non disdegnò uscir dall’acqua salata

e baciò l’amata con soave brusio.

Nacque Pèrseo, il grande eroe,

sbalordì il re ch’ebbe paura:

quel neonato un dì l’avrebbe ucciso nell’ore

impensate; così trasse dalle mura calcaree

madre e figlio, chiudendoli in una cesta,

li affidò alle turbolenti onde del mare.

Alle rive sabbiose di Sèrifo, giunse mesta

la cassa ripescata dal re Polidette.

Costui li ospitò grattandosi la cresta,

in quell’isola piena di rocciose vette.

Trascorse il tempo. Pèrseo passò

la breve giovinezza bello e forte,

e con l’impeto d’un toro amò

la figlia del re invidiata dall’intera corte.

Una missione pericolosa gli commissionò Polidette,

doveva in quell’isola portare la testa di Medusa

perché di Pèrseo la poderosa forza temette.

Così, volgendosi ad una musa,
/alimentava la speranza

che il giovane perisse nel compiere l’impresa.

Però Pèrseo, fiducioso nella sua valenza,

nell’aiuto degli dei fece tutta la sua presa.
.
All’uopo Ermes, dall’Etna,
/affilò una falce diamantina

per tagliar la testa alla Medusa infernale,

ed Atena fabbricò uno specchio
/per guardar, quella mattina,

la mostruosa testa senza scrutar lo sguardo fatale.

Anche dalle Fòrcidi ebbe aiuto, ninfe severe,

da cui ebbe dei calzari alati,

una bisaccia ed un cappuccio dalle falde nere.


Pèrseo s’incontrò con le Gorgoni: non venerate

perché orribili con le teste inghirlandate

da serpenti, zanne prominenti e mani artigliate.

Dormivano i mostri, quando Pèrseo,
/servendosi dello specchio,

riconobbe la testa scellerata,

prese di mira chiudendo un occhio,

e la testa mozzò con la falce dentata.

Subito da quel tronco insanguinato

nacque Pègaso: cavallo alato.
Ripose l’eroe il capo mozzato nel sacco,
salì coi calzari alati sfuggendo all’ira delle sorelle
rendendosi anche invisibe
/col cappuccio color tabacco.
Veloce come il vento e l’acque delle fiumarelle,
attraversò paesi misteriosi sin in Etiopia
ove liberò Andròmeda dalle bianche mammelle.
Era destino compiere un’opera pia
dato che il re Cefèo l’aveva data in pasto
/ad una bestia immonda
mandata da Positone a punizione del gran fasto
e superbia della regina Cassiopèa dalla faccia rotonda.
Ancor Pèrseo liberò quella gente dal mostro,
poi Andromeda sposò in elegante chiostro.
Dopo tanti tribolazioni e affanni
lasciò gli Etiopi diritto verso Sèrifo solitario.
Pietrificò Polidette che tramava da anni,
regalò ad Atena la testa col sudario.
Ma il Fato si compì egualmente:
non ebbe colpa Pèrseo, fu una disgrazia!
Durante la gara un disco tristemente
colpì Acrìsio nella senile baldanza.

Giovanni Teresi
GT

Messaggio da GT »

Fratello!

Uomo vestito della tua pelle,
dell’abito che indossi
non esser prigioniero!
Nel tuo cuore,
nella tua mano destra
corre la stessa linfa.
Pregiudizi di colore
per la tua pelle offendono
il tuo genere.
Occhi grandi o piccoli
o a mandorla guardano,
piangono, sorridono
alle sottintese parole,
ai gesti di fratelli diversi
solo all’apparenza.
Fratello sii orgoglioso
della tua mente,
della tua voce
alla luce del sole
che scalda la tua pelle.
Irrompano parole fraterne,
persuasive, d’amore
con strette di mani nere,
rosse, bianche, gialle
nel sottile pulviscolo di vita
che avvolge il mondo.
Fratello guarda lontano,
il tuo futuro, la tua operosa mano!
Nel buio della notte,
che oscura il tuo sguardo,
scegli una stella;
dalle il nome tuo o di tuo figlio,
o del vicino.
Allora il firmamento splenderà
alla tua voce, al tuo cuore,
alla tua mano coraggiosa
che avrà seppellito l’odio,
la guerra nei bui antri della madre terra.
Le mani bianche, nere, rosse o gialle
strette tra le dita affonderanno
nelle zolle, nella polvere
e ne usciranno candide, eguali
nel pulviscolo di stelle.
Fratello! Uomo!
Il color della tua pelle appartiene
agli iridi colori di nuova vita!
Giovanni Teresi
Visitor

Messaggio da Visitor »

Poesie quelle di Giovanni,fatte da mamo di buona esperienza ma bisognevoli del rasoio di Occam per concetrare la forza.Inoltre dice MacLeish,una poesia non deve dire ma essere.Troppa mitologia rovinava i bei versi di Properzio,eppure allora era ancora viva.Una poesia per impressionare il lettore deve gemere emozione da tutte le parti.La poesia,come l'insalata di aceto,di mitologia ne desidera solo un poco.
Ito Nami cordialmente.
a tobia

Messaggio da a tobia »

“Il divino-umano nella poesia di Giovanni Teresi”

Ogni qual volta mi occupo di poesia, mi viene spontaneo chiedermi quale sia il rapporto tra il divino e l’umano, tra il Creatore e la sua creatura? E se questo rapporto l’uomo di fede ammette che ci sia, attraverso quale medium esso è praticabile? Certamente attraverso la parola.

Se Dio, infatti, ha creato per mezzo della parola e si è umanizzato attraverso la parola, è altrettanto vero che l’uomo esprime attraverso la parola la sua partecipazione al divino e, come nel Verbo incarnato l’Ente si è trasformato in esistente, così l’uomo ritrova nella parola lo strumento per esistere e socializzare con i suoi simili, ma anche, se cristiano, il modo per capire il percorso tracciato dal Figlio con la Rivelazione: in principio erat verbum et verbum caro factum est et habitavit in nobis. In questo senso, la parola in genere e la parola poetica in particolare diventa l’ultima actualitas dell’essentia, secondo il pensiero scolastico, ovverosia la parola dei poeti è la sola che riesce a tradurre l’essentia, o natura concettuale della cosa, in existentia, cioè in atto. L’atto è il mondo della realtà, l’atto è l’uomo stesso che, nel momento in cui esiste, esce fuori da sé e registra i suoni, i colori, il microcosmo e il macrocosmo, s’interroga, piange, gioisce.

E’ questo un aspetto dell’esistenzialismo riscontrabile nella poesia di Teresi, che assume l’esistenza umana come oggetto principale di analisi. Sicchè la poesia del Nostro si presenta al lettore come “riflessione sulla natura del tempo, sulla storia e sulla storicità dell’uomo, sulla libertà e l’impegno, sulla finitudine e la morte, sull’angoscia e in generale sugli stati emotivi, intesi come forme di comprensione pre-filosofica del reale”, che è poi la definizione che Emilio Morselli dà dell’esistenzialismo.

La poesia di Teresi diventa rivelazione, intesa come atto del disvelare il mondo fenomenico colto nella purezza dell’alba del Creato, e quindi scevro d’ogni appesantimento concettualistico, inserito nella luce della sua essenzialità, che non si nasconde dietro il velo di Maia, o dietro al simbolismo caro alla poesia decadente.

Platone, nell’Ione, scriveva: “Dicono che da fonti di miele, scorrenti da certi giardini, dalle valli selvose delle muse, i poeti portano a noi come api i loro canti, a volo .”

Questa sensazione di armoniosa dolcezza si percepisce immediatamente leggendo la poesia del Nostro. La dolcezza dei versi è il frutto di un’accurata scelta linguistica, che, tradotta in armonia, fa dimenticare al lettore il percorso di ricerca e di studio che impegna ogni poeta, un percorso tanto più arduo quanto più breve è il frammento lirico, tanto più insidioso quanto maggiore è l’attenzione che deve riporre nel volare fior da fiore, da lessema a lessema, da fonema a fonema, a recuperare il suo prezioso nettare.

Ti specchi al caldo vento/ nelle trasparenti acque/ della laguna,bella e sola/ai mutevoli accesi tramonti,/sogni serena il tuo passato./Mothia!coronata d’abeti,/porgi le aculee agavi,/i salubri odori,/ i saporiti frutti,/i cocci del passato/d’ammaliante ninfa… (Serena). Si tratta di un tipico esempio dell’astoricità ricercata da Teresi in poesia, il tentativo riuscito di collocare l’evento in una dimensione che vada oltre lo spazio e il tempo, una ricerca di bellezza assoluta non scalfita dallo scorrere delle ore e dei secoli.. Il tempo è come se avesse registrato per sempre la bellezza prodotta dall’uomo e se ne fa custode e sacerdote. Infatti, Le statue guardano immote,/dai templi corrosi dal tempo,/le grigie ceneri che/si dipartono al vento,/le marmoree scritte/negli intervalli del passato…/, un passato che è vita e che il poeta recupera attraverso l’uso di correlativi oggettivi: l’antica fontana,/imperterrita,/ripropone il lento,/monotono gorgoglio della vita/catturata nell’edera avvinta/alle scolpite pietre…, i contorti rami, vestiti di muschio, fermi lì da secoli, non vinti, non bruciati, a guardare lo stesso cielo.(Desolazione)

Altre volte la poesia diventa invocazione di dolore e di speranza , tanto più efficace quanto più è assente ogni indugio in stasi descrittive, in ricercate cadenze prestabilite. La perfezione formale non si sovrappone mai al bisogno di comunicare, ma si fonde con esso, senza alcuna distonia, perché è il nucleo tematico a suggerire le cadenze ritmiche, le pause, il linguaggio.

Così nella lirica intitolata alla pace, il poeta denuncia l’odio, il sopruso, il fuoco delle armi che come tristi note irrompono e finiscono nella nebbia delle menti e al contempo lancia un appello ai popoli di buona volontà, un appello all’amore, alla fratellanza, all’amicizia: Popoli! Gridate la pace,/unitevi nella speranza/ di un abbraccio fraterno!

Se pure il dolore, che nasce dalla constatazione della forsennata violenza umana, si risolve nella speranza tutta leopardiana di una ipotetica social catena che lasci trionfare la tolleranza, l’amicizia e la pace, tuttavia nel momento dell’introspezione, della confessione agostiniana, l’uomo si chiede: ove conduce la vita,/il pensiero, la mente…/oltre il presente? Allora l’unica certezza è data dall’affermazione del proprio esserci: Io sono e non so/alcuna risposta al dubbio/del perché.

Tuttavia il dubbio fa parte della fede, perché questa trae forza dall’autoanalisi, dall’atto altamente drammatico dell’interrogarsi quando è sincera e profonda, altrimenti svanisce se le sue radici sono deboli e il terreno accidentato. La fede resta comunque un dono, ma è anche la ricompensa di una ricerca interiore, ed è anche il punto di arrivo di chi con spirito francescano ama confondersi con la natura, che considera epifania dell’Essere. Dio è nella mente di chi ama e crea./Dio è luce di vita gioiosa./Dio è in un semplice fiore e/nel delicato odore del pane./ e ancora, chiudendo con l’anafora iniziale, il poeta conclude: Dio è tutto ciò ch’è vicino e lontano./Dio è tutto tranne che nulla./Dio è tutto nel sapore del latte e del miele. (Dio è)

Sono versi che si presentano come un canto di ringraziamento al Signore da parte di un poeta che vuole essere Pittor dell’animo, dei sentimenti./Viaggiator nei sogni, nella fantasia./Interprete della natura intera e delle genti./Produttor di parole, d’amor in poesia./Artista non di ritratto,ma di vita./Statua non di marmo,ma di creta./Giocolier della mente e della vita./Immortale nell’opera ch’è la meta.(Poesia)

La luce, i profumi, i colori, sono le mille note che il linguaggio poetico di Teresi affida ai sensi, perché siano essi i primi a godere dei doni del Creatore, allorchè la poesia si fa idillio e si arricchisce di movenze nuove che scandiscono la bellezza del creato e si trasformano in sinfonia. La natura è sempre quella siciliana che porta in sé la gioia dei paesaggi teocritei, vivificata dalla consapevolezza della sua origine divina, laddove il divino si colora talvolta delle movenze fascinose dell’archetipo della bellezza pagana: Afrodite:

Era un’alba radiosa di primavera,
la terra sorrideva e tra le fronde
lo zèfiro spirava leggero a sera.
Il mare con lento moto delle onde
carezzava le coste di Citera.
Si cullava in una conchiglia baciata dal sole, in cocchio regale,
una dea di Zeus figlia.
“Afrodite! Sull’azzurro mare sale
con i tritoni e i delfini!” disse Zeus
accostandosi a riva.
Così Afrodite, con moto del capo vezzoso,
scrollò l’acqua dai capelli, balzò come diva.
Al suo passo si placò il mare focoso.
Erbe e rose spuntaron al suo passo graziato.
Felice fece tutto l’Olimpo in quel dì radioso,
germogliaron le zolle al suo delicato fiato.

L’immagine della Venere anadiomène, di tradizione esiodea, è riproposta con i colori del pennello botticelliano e con la grazia dei versi del Chiabrera:

nel sen dell’acqua
in un momento nacque
la bella di Ciprigna.
La donzelletta, uscita
dalle spume marine,
tergeva il biondo crine
con le candite dita:
e subito salita
in su conca leggera,
immantinente corse
dall’onde, ond’ella sorse
ai lidi di Citera.

Nell’Ione ancora leggiamo : “Il poeta è un essere leggero, alato, sacro, che non sa poetare se prima non sia stato ispirato dal dio”. Così da Omero in poi divenne un topos letterario l’invocazione alle Muse, fino al poeta della Gerusalemme liberata, che alla Musa pagana conferì la spiritualità cristiana.

I poeti sono, quindi, profeti di verità, se si pensa che Virgilio Marone nel medioevo cristiano era ricordato come mago e la sua Eneide consultata come un testo sacro da cui ricevere risposte ai dubbi dell’esistenza.

Il poeta è vate quando canta la natura, quando si fa interprete dei sentimenti di tutti, quando rivela a noi stessi quello che da soli non riusciremmo a dire, quando gioisce dinanzi alle meraviglie del creato, e quando soffre per la cattiveria o le disgrazie disseminate sulla terra. Egli è sempre con noi, rappresenta la parte più viva di noi, se sappiamo ascoltarne la voce

E questa potrebbe essere la risposta a chi si ostina a considerare morta la poesia nell’era della tecnologia più sofisticata, dalla quale l’individuo rischia di uscirne spersonalizzato. E’ questa la risposta a quanti considerano mero ozio letterario lo scriver versi. Ci si dimentica spesso che l’uomo ha bisogno, come suggerisce il Manzoni di “sentire e meditare”, e che la ragione senza sentimento o si raffredda o si addormenta, generando i mostri di una scienza senza anima, di una ricerca della verità senza fede, di ideologie senza l’uomo, di una civiltà senza umanesimo.

E nel deserto della vita, quando ogni certezza si disgrega e crolla la volontà di lottare, perché tutte le forze si sono indebolite e ogni resistenza ha ceduto, allora l’anima si leva/ al tappeto ricamato/ cercando nelle luci/ del deserto la verità/ e la via,ovvero la propria verità e la propria via.

:idea: I.T.C. “S. Calvino” Trapani 25.01.2007
Antonino Tobia
GT

Messaggio da GT »

LA SACRA TUNICA

Il corpo martoriato, esamine si trascina
con dei sandali rotti sulla via del calvario...
La pietà non abita nei cuori,
si uccide l'innocenza, la sapienza,
il frutto della vita.
La tunica impregnata di sangue,
lacera e sporca di fango, copre le ferite.
Sul Golgota la croce, issata tra loschi vicini,
porta le esili membra inchiodate, il dolore.
Gesù, Figlio di Dio, non guarda l'orrore
ama e perdona...
La Madre raccoglie la tunica,
abbraccia gli stracci del Figlio,
guarda col cuore trafitto il Divino,
non grida, sa già il promesso destino:
"il Figlio non sarà morto!"
i fratelli grideranno: E' risorto!!"
La terrena pietà è solo un momento...
La Luce di Vita abbaglia le tenebre nel vento,
riempie la terra di lacrime,
il cielo di gocce di pioggia.
La Luce Divina annienta il dolore, la morte.
Il futuro non sarà sepolto nel nulla.

Giovanni Teresi
I.T.C. Calvino TP

Messaggio da I.T.C. Calvino TP »

La poesia di Giovanni Teresi è classica e di buon decoro formale. I contenuti sono soprattutto mitologici e religiosi. Si denota nei versi una originale musicalità che è propria dell'autore. Una buona lirica si evince oltre che dal contenuto anche dalla fluibilità del verso. :-)
I ragazzi del Calvino

Messaggio da I ragazzi del Calvino »

Le poesie del Prof. Giovanni Teresi sono da sogno, dolci e musicali. Tra tutte quelle lette, nessuna è pessimista; ogni lirica lascia un segno di pace ed amore. :D :D
Gioacchino Grupposo

liriche di Giovanni Teresi

Messaggio da Gioacchino Grupposo »

L’autore affronta tematiche complesse ed articolate con mano sicura, sul filo di un dettato linguistico misurato e classico, equilibrato e sapiente: ricchezza di referenti culturali ed intensità della compartecipazione emotiva sollevano i testi ad una serenità mossa ed elegante, lungo una textura fonetica che asseconda efficacemente la componente narrativa ed argomentativa :D .
Genovese Davide

Messaggio da Genovese Davide »

Nella lirica La Sacra Tunica l'autore ha saputo esprimere tutta la drammaticità del momento della crocefissione e l'immenso dolore ed amore della Madre. La scenografia è pregna del sacrificio estremo e del rimorso. Sempre attuali sono le angoscie e il desiderio di pace. Un ringraziamento per le emozioni offerte dalla lirica vanno al Prof. Giovani Teresi che con le sue poesie suscita sempre interesse e costruttivo dibattito culturale. :D
GT

Messaggio da GT »

La mia donna

Sento che la mia donna è tratta dal mio costato.
Nell’oblio della vita ricordo un unico fiato.
Sento un’attrazione all’essere dipartito,
che gioisce alle carezze, ai baci con giocoso rito.
Il vento insemina il polline su d’un campo fiorito,
al tenero sbocciar delle corolle in un’alba radiosa.
O gentil donna, hai in te la fertilità e l’odor delle mimosa!
Due bianche colombe portan la pace,desiderio di continuità, di canto e d’amor che dice:
“donna! Il tuo sorriso, i tuoi gesti, la tua voce
sono felicità all’occhio dell’uomo, che t’ama e brama.
Il tuo mondo è distinto dal mio
/ma al sole siamo un’unica trama”.
Nello sguardo dei tuoi occhi è perpetrato
/il simbolo della vita che vola,
ed io uomo che lotto e corro col segno nella mia gola,
porto il seme ed il palpitar del cor che sempre geme.

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Guardo nei tuoi occhi

Cerco il calore,
il batter del cuore,
l’amor intenso,
i colori della vita,
i riflessi dell’aurora,
i dì vissuti…
Colgo l’attimo
riflesso nelle tue
lucenti pupille.
Già assaporo,
nascosta
dalle timide ciglia,
la tua anima…
Lacrime d’emozione
traboccano
trasparenti,
candide,
lucide come uno specchio
ove felicemente mi guardo.

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Il volto senza tempo

Nell’ombra effusa traspare
un roseo lembo tra trine
e leggeri tessuti;
caparbi sensi e moti
nel soffice andare…
Un vento leggero muove
la chioma,
i petali d’una rosa.
Il verso d’un sorriso,
il batter d’eleganti ciglia,
lo sguardo lucido, profondo
del volto senza tempo.
Tra lumi che fendono l’attesa,
s’apre la via dei sogni,
giungla di sospiri…
In alto il cielo immoto,
ch’accoglie già l’andare
d’un altro laborioso dì,
il volo di farfalle
col turbinio d’ali…
Il sapore d’un bacio
segna il tocco dell’ore.
Un lieve tenue odore
di cose conosciute
sovrasta e…
nella soffice realtà
una nota aleggia
tra nugoli di stelle;
l’amore senza tempo
vien colto nell’iridi pupille.

Un segno irripetibile
elegante emana gioia
da candidi sorrisi,
dal vezzoso scuro crine
nell’ombra della sera.


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Giglio R.

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Belle le liriche del Prof. G. Teresi, molte di esse trattano tematiche del mondo letterario, della donna e della religione cristiana con un senso di delicatezza ed emozione che sono propri dell'autore. :D
-GT-

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Attesa del risveglio

All’ombra dei cipressi
fredde bianche croci
tra muscose pietre
stanno nel silenzio…
Nomi e date, soli
nelle gocce di rugiada,
ricordano il passato.
Dei ceri ancora accesi
al lieve vento
animano il ricordo;
l’attesa è nell’anima
col profumo delle rose.
Le cose circostanti
non esistono
nel breve attimo
dell’intima preghiera,
i versi dipartono dal cuore
al velato cielo.
Un sospiro ansioso,
una tenera carezza
si posano sui cari nomi
scolpiti su dura pietra.
Accanto ad altre lapidi,
una non ha fiori
né un lumino;
un gesto di pietà
è in ricordo di chi è morto
in guerra, in un disastro
o nel martirio.
Un raggio di sole
scalda la fredda croce
nella povertà, nella speranza.
Un tenero fiore sboccia
alla calda Luce.



Giovanni Teresi
Marsala (TP)
GT

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Il giorno del dolore


Sul Golgota piangeva
la Madre dolorosa
il Figlio straziato
da mani feroci.
Il cielo piangeva
fredde lacrime
di triste pioggia…
I cuori assassini
battevan anche,
inconsci
del grande dolore.
L’innocente sangue
versato svegliò dopo
le menti,
quei duri cuori.
Grande rimorso pervase
aprendo la via alla Pace,
al perdono.
Sacrificio Divino
che porta all’Eterno!
Ogni atto vile
che ripete quel giorno,
fa piangere le Madri.
Il sangue versato
in terra straniera
da giovin Figli
muterà l’odio
in Fratellanza.
La nobil causa
portata lontana
volerà in Alto
e coprirà di Gloria
i loro nomi.
Ora il silenzio…
il dolore,
ci fa sentire più soli,
ma i loro Volti
saranno impressi
nella storia,
nel Tricolore
che copre quei terreni
preziosi corpi innocenti.



Giovanni Teresi
Lirica dedicata a tutti i soldati italiani caduti per la Pace in Afghanistan
gT

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Prima notte di Natale



Quella notte fredda,

tersa in un manto di stelle,

silenziosa dormiva

tra tegole e camini

tra rami insecchiti;

sulla neve adagiava

i rivoli del vento,

della terra i gelidi profumi.

La stella d’oriente

celere trascinava

i sogni e le nuove

sui tetti, sui monti

sulle dune deserte.

Dei pallidi volti

incantati aprirono

gli occhi al mistero:

un dolce vagito

lontano s’udì…

Nell’umida paglia,

nella povertà,

giaceva Gesù;

la sua dimora, il suo regno

era l’umile capanna,

il suo sorriso sciolse

la neve accanto.

L’amore di Mamma

si dipinse nell’eterno

fluire della vita,

nell’universo cullato

dal tenue bagliore dei lumi.

La cometa si fermò

nell’alto del cielo,

cosparse una pioggia d’argento,

aprì il cammino

in quella notte non più fredda

e non più cieca.



Giovanni Teresi
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